Due secoli di storia
della Riviera in un libro della Fondazione
Carim Data: Mercoledí,
17 dicembre 12:45:30 Argomento:
cultura
Dal primo
stabilimento balneare ai giorni nostri, due secoli di storia
della riviera da ripercorrere attraverso un libro. È stato
presentato oggi il volume curato da Ferruccio Farina e
patrocinato, in occasione delle feste, dalla Fondazione Cassa
di Risparmio di Rimini. http://www.fondcarim.it/
Era il 30
luglio 1843 quando veniva inaugurato a Rimini il primo
impianto per bagni di mare dell’allora Stato Pontificio; nel
160° anniversario dell’evento la Fondazione Carim presenta, in
occasione del Natale, il volume “Una costa lunga due secoli.
Storia, costume, immagini della Riviera di Rimini dalle
origini ai giorni nostri”. L’autore Ferruccio Farina
ripercorre, attraverso documenti ed oltre 300 immagini, le
tappe dello sviluppo di un settore turistico, in grado di
influenzare cultura, costume ed economia di una piccola città
costiera. Ferruccio
Farina è l'autore del libro. Scorrendo le pagine si
rivivono gli eventi che, tra momenti difficili e periodi
entusiasmanti, hanno determinato l’affermazione della riviera
romagnola, sempre capace di reinventare se stessa.
Un’occasione per mettere da parte, per un attimo, i
problemi attuali e guardare con ottimismo a quello che Rimini
può offrire. Ascoltiamo Aureliano
Bonini, esperto e ricercatore.
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Antonio Montanari
http://digilander.libero.it/ilrimino/att/2004/893.farina.html
il Rimino - Riministoria
Rimini, il «turismificio»
dei primati Un modello che fa scuola in tutto il mondo
Cento
anni di turismo. Evoluzione della specie delle
bagnanti.
Nella recente presentazione del volume «Una costa lunga
due secoli» (pubblicato per conto della Fondazione Carim da Panozzo
editore, Rimini 2003), l'autore Ferruccio Farina ha dichiarato che
questa fatica «è il ritorno al punto di partenza di un percorso durato
venticinque anni». Egli infatti ripropone qui, con un respiro più ampio, i
frutti della sua passione di collezionista e di studioso, già offerti in
varie occasioni. Il libro unisce tre aspetti che fanno ingolosire i
lettori appassionati. La raccolta delle immagini (fotografie, disegni,
pubblicità). L'antologia di testi e documenti. E la cronaca della nostra
industria dell'ospitalità che data dal 30 luglio 1843, quando fu
inaugurato il primo impianto per bagni di mare dello Stato pontificio,
avviato da Claudio Tintori e dai conti Alessandro e Ruggero
Baldini.
La nostra città ed il mondo La scansione
cronologica segue un ideale percorso che segna le trasformazioni locali,
tenendo conto pure dello sfondo storico generale. A volte però sembra
quasi che la nostra città sia stata un'isola felice, come quando si
racconta dell'entrata dell'Italia in guerra nel 1915: amministratori,
albergatori e giornali «si ostinano a sfoggiare, comunque, sorrisi e
rassicuranti parole». Farina, parlando di «uno spettacolo senza
spettatori», rimanda ad una specie di categoria mentale dominante, quella
del «turismo» isolato da tutto il resto, quasi che Rimini non sia anche
altro. Non per nulla ancor oggi si parla di due città. Quella al di sotto
della ferrovia, votata all'industria balneare, e quella al di sopra con
altre caratteristiche economiche. Giorgio Tonelli parlò anni fa di Rimini
come città «schizofrenica», per compendiare in una formula il nostro
problema di non riuscire ad amalgamare gli aspetti molteplici della realtà
sociale. I guai maggiori durante la grande guerra furono per «la
numerosa e povera classe marinara», secondo quanto spiegò Gaetano
Facchinetti ne «Il travaglio e la fede di una città adriatica». Il governo
aveva vietato «ai trabaccoli di solcare il mare»: alla «miseria della
classe priva di lavoro», s'accompagnava il «deperimento dei legni», tanto
che alcuni vecchi marinai distrussero «con le loro stesse mani quei
trabaccoli la cui costruzione era costata lunga fatica e penosi
sacrifici». Per documentare la visione che privilegia il turismo su
tutto, e la conseguente categoria mentale totalizzante che ne deriva,
appare utile questo passo di Farina: «Dopo il 4 novembre 1918, la Riviera
rimane ancora invasa da veneti, trentini, austriaci, tedeschi: non più
come graditi ospiti paganti, ma profughi delle terre invase, convalescenti
o prigionieri che il Ministero della Guerra aveva imposto a pensioni,
alberghi e villini, con requisizioni invano osteggiate».
Arriva
anche Giulio Cesare Il periodo dal 1900 al 1940 è equamente
distribuito fra il «sapore di belle époque» e la «costa a regime». Nella
prima fase, Farina individua «una sorta di tregua sociale che metteva al
riparo Rimini e la sua marina da quelle tensioni, che spesso divenivano
moti e sommosse». Nella seconda, «Rimini spiaggia mondana» deve diventare
anche spiaggia «romana»: «Con l'affermazione del regime, infatti, c'era
anche chi credeva che le mollezze balneari di un tempo dovessero
trasformarsi ad ogni costo in sfoggi di virilità e di durezza fascista».
Giulio Cesare è riciclato in funzione littoria diventando un «testimone»
fascista, dopo il dono da parte del duce della sua statua (1933).
L'epoca più vicina a noi, dal dopoguerra al 1970 e quindi sino al
giorno d'oggi, è compendiata in due titoli: «Tutti al mare» e «La fabbrica
delle tendenze». Per l'immediato dopoguerra, Farina si richiama alla
vicenda della distruzione del Kursaal: «Paradossalmente ed
emblematicamente, il nuovo ciclo non inizia con una costruzione, ma con
una distruzione», quella della mitica «cattedrale innalzata nel 1873 e
miracolosamente uscita indenne dai bombardamenti». Comincia allora il
ciclo della «spiaggia nazional-popolare», scrive Farina, riprendendo una
formula coniata da Giorgio Gattei, giustamente definito uno «tra i più
attenti studiosi dello sviluppo turistico della Riviera». Circa la
ripresa turistica e la questione urbanistica, Farina osserva: chiudendo
gli occhi sugli scempi dell'edilizia privata, si compromisero allora
«gravemente gli sviluppi futuri della città». A proposito del sindaco
Walter Ceccaroni, Farina scrive che la sua ideologia «poteva sembrare
leninista solo ad occhi disattenti o interessati. Certo, se, come voleva
Lenin, bisogna socializzare la terra, bisognava socializzare anche la
Riviera: la terra ai contadini e la spiaggia ai bagnini. Peccato che qua,
la terra da far occupare non era dei nobili, salvo qualche eccezione, e i
beneficiari, pur in buona parte ex contadini, non andavano a coltivar
patate ma a cementificare costruendo pensioni e alberghi, capitalizzando
pro domo loro, senza neppur pagar le tasse, pratica a cui non erano mai
stati abituati». Avvenne così quella che Farina chiama «l'invasione
quasi selvaggia degli spazi», e che Piero Meldini (qui citato) definì il
frutto del «liberalismo senza complessi» di Ceccaroni. Tutto ciò ha quelle
conseguenze che furono compendiate in una parola, «riminizzazione».
Ceccaroni si giustificò: «Rimini non è peggio del resto del Paese, e poi
allora bisognava ricostruire. Il passato, cioè, non si discute». Pure
l'on. Veniero Accreman era dello stesso parere: bisognava sfamare «le
schiere di disoccupati rumoreggianti che chiedevano lavoro».
La
politica del cemento Nel 1988 il «Dizionario ragionato» della
lingua italiana di Angelo Gianni e Luciano Satta registrò la voce
«riminizzazione» per indicare il deturpare il paesaggio con troppo
cemento, provocando in città grande scandalo. L'ex federale del pci Nando
Piccari chiese al sindaco Conti di prendere provvedimenti. Per «il Ponte»
interpellai allora il prof. Gianni che mi dichiarò: «Il gran chiasso che è
stato fatto è dir poco privo di senso. I lessicografi sono dei notari, non
dei creatori di voci!». In quel «Dizionario» si aggiungeva una cosa che
sfuggì ai più: che cioè Rimini «era stata elevata a simbolo di un fenomeno
diventato comune a tutta la penisola». La parola «riminizzare» oltretutto
ricalcava «rapallizzare», termine usato dallo stesso Satta nel 1974 e da
Antonio Cederna nel 1981. E forse fu Cederna ad inventarla. (L'arch.
Cervellati definiva Rimini, Riccione e San Marino come il «triangolo
dell'orrido».) Altra parola celebre per Rimini è «divertimentificio»,
coniata nel 1983 da Camilla Cederna, sorella dell'Antonio appena
ricordato. Parola che raccontava, spiega Farina, «la chimera di un paese
dei balocchi aperto 24 ore su 24», ma con anche dei risvolti drammatici:
la piaga della droga e l'effetto «delle tristemente note stragi del sabato
sera». Farina tratta poi di un terzo aspetto del nostro sistema-turismo,
«il sessificio» a cielo aperto, di cui si ignora la data d'inizio, ma di
cui conosciamo quella «che segna emblematicamente il suo declino», il 15
luglio 1998, «quando il sindaco progressista, apparentemente pacifico, si
trasforma in condottiero implacabile e, alla testa dei suoi fedelissimi
vigili urbani, affiancato da spiegamenti di carabinieri e polizia mai
visti prima d'allora sul lungomare, sferra il primo degli attacchi»
all'industria fiorente della prostituzione.
Da Arpesella a
Sanese Su questo scenario in cui convivono gli aspetti più vari
d'una società costretta ad un moto perpetuo innaturale (e, si sarebbe
detto un tempo, alienante), emergono altri elementi che permettono
d'individuare i meccanismi dell'economia turistica riminese. Si veda ad
esempio il capitolo dedicato alla «Scuola di Rimini. Laboratorio e
leadership», nel quale compaiono vari nomi, da Marco Arpesella a Luciano
Chicchi, da Nicola Sanese ad Aureliano Bonini. Proprio alla presentazione
del libro di Farina, Luciano Chicchi (quale presidente della Fondazione
Carim), ha voluto sottolineare il ruolo svolto negli anni Sessanta da
Marco Arpesella nella creazione di un gruppo dalla visione cosmopolita,
che poi avrebbe segnato con tanta forza la «rivoluzione strisciante» dei
decenni successivi. Il segreto di Rimini, ha detto Chicchi, è questo:
«sapersi trasformare», secondo un modello che (a giudizio di Aureliano
Bonini) si può riassumere nella formula: «fare le cose giuste nel momento
giusto». Un modello che ha dimostrato efficienza ed efficacia, che si
ispira ad una città «spontanea, e quindi eterna». Questo modello è poi
illustrato in una lunga pagina dello stesso Bonini, riportata a
conclusione dell'antologia. Bonini è ottimista: quanto è stato finora
realizzato nella nostra Riviera, costituisce le premesse per sapersi
rinnovare in continuazione, anticipando le nuove esigenze con un
«marketing simpatico» che altrove non esiste.
Lavoro nero ed
evasione fiscale Crediamo che circa genialità ed originalità
dell'industria turistica riminese, Bonini abbia senz'altro ragione. Ma
occorrerebbe esaminare anche l'altra faccia della medaglia, composta di
tanti aspetti che potremmo raccogliere sotto la voce di «costi sociali»,
dal lavoro nero all'evasione fiscale. Sono elementi sui quali l'attenzione
è stata posta da «opinioni» religiose, politiche e sindacali con
discussioni che purtroppo non sono ritenute capaci di «fare storia»,
perché valutate marginali o ininfluenti rispetto alla gran massa di dati
utilizzati per raccontare un primato indiscutibile. E che è divenuto una
specie di dogma cultural-politico con cui mettere a tacere ogni voce che
avanzi critiche o che appaia d'opposizione alle idee trionfanti. In
questi ultimi mesi, ci è capitato di presentare su queste colonne due
volumi che parlavano del nostro turismo dal dopoguerra ad oggi. Si tratta
del ritratto ottimistico di un successo riletto nell'ottica del partito
dominante, con «Il petrolio del Bel Paese» dell'ex sindaco pci Zeno
Zaffagnini («Ponte»,
16.11.2003). E dell'indagine sugli ultimi cinquant'anni, dove abbiamo
incontrato tra le altre cose il discorso di Grazia Gobbi Sica sui guasti
provocati nella nostra costa da incultura, cattivo gusto, ignoranza e
velleitarismo («Ponte»,
14.12.2003). Anche per lo storico Giorgio Conti questi guasti
esistono. Orbene la conclusione che a Rimini tutto sia avvenuto ed avvenga
nel modo giusto e nel momento giusto, mi pare appartenere a quella maniera
di pensare che richiama un po' i ragionamenti del manzoniano don Ferrante.
Il quale non credeva alla peste, ma ne morì «prendendosela con le stelle».
Alla stessa maniera, noi non vogliamo vedere i «lati oscuri» del nostro
modello turistico perché gli astri o la nostra genialità ci hanno sempre
guidati verso il meglio. E si sa già dal tempo di Giorgio Guglielmo
Federico Hegel (1770-1831) che, come sostiene Bonini, «ciò che è stato,
doveva essere», e che ogni cosa contiene in sé la legittimazione della
propria razionalità. Rimini in apparenza è ancora ferma lì, ad Hegel.
Speriamo che anche il nostro «pensiero ufficiale» arrivi a comprendere
come la realtà sia leggermente più complessa di una bella formula
pubblicitaria. O «filosofica».
Antonio Montanari
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899/Riministoria-il Rimino/00.01.2004
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